mercoledì 2 luglio 2008

Uso improprio dell’arma da parte dell’agente: paga anche l’amministrazione che non ha dettato le opportune istruzioni


Definire il caso come ordinario sarebbe irriguardoso delle autorità militari, dire che non accade mai è fare un torto ad una incontrovertibile verità statistica. Fatto sta, che l’episodio cui ci riferiamo è tragico e riguarda due giovani in divisa i quali, complice certamente l’inesperienza, sono rimasti coinvolti, uno di loro purtroppo fatalmente, in un banale scherzo giocato con le armi. Lo scenario è la caserma dei Carabinieri dove i due giovani stavano assolvendo il servizio di leva; l’occasione futile; la conclusione paradossalmente luttuosa: molto semplicemente uno insiste per convincere l’altro a giocare a pallavolo, per scherzo lo minaccia con la pistola d’ordinanza, ma parte un colpo. Tutto il resto è lacrime, disperazione ed inevitabilmente dibattimento nelle aule di giustizia. Una lunga querelle per il risarcimento del danno approdata alla soluzione definitiva solo il 17 gennaio 2008, con la sentenza della Cassazione Civile, Sezione III, n. 864. La massima che se ne ricava è che “dei danni causati dal proprio dipendente - nella fattispecie cui è affidata un’arma - risponde anche la pubblica amministrazione se non ha impartito le necessarie direttive, idonee ad impedire il fatto”. Non è poco, se immaginiamo il principio appena espresso esteso alla responsabilità di tutti coloro che, per motivi istituzionali affidano ai loro sottoposti armi da fuoco o assimilati (esempio: la pistola agli agenti di polizia locale o lo spray al peperoncino). Ma veniamo al nodo controverso sciolto dalla Suprema Corte: a pagare danni dovrà essere solo chi ha, sia pure per fatale negligenza, premuto il grilletto, oppure anche la sua amministrazione di appartenenza? Pagherà solo il carabiniere o l’Arma gloriosa, il poliziotto o l’Amministrazione di PS, il vigile o anche il suo Comandante. Per non fare riferimento solo alle storie tragiche, pensiamo ai casi in cui, per quanto concerne la polizia locale, gli agenti utilizzino i nuovi strumenti di difesa, come la mazzetta di segnalazione o lo spray al peperoncino, provocando danni alla persona, meno gravi, ma pur sempre risarcibili. Tornando alla sentenza n. 864/2008, già nel processo di primo grado il Ministro della Difesa, citato accanto al responsabile, aveva svolto domanda di manleva nei confronti del carabiniere ausiliario, ottenendone però il rigetto. Condannati tanto il ragazzo che il Ministero, vengono risarciti sia i genitori che le sorelle della vittima. In appello la situazione rimane pressoché confermata. Il Ministero, quindi, tenta la via della Cassazione e denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 28 della Costituzione e dell’art. 2049 c.c. La sentenza impugnata - secondo l’Avvocatura dello Stato ha fatto cattiva applicazione dei principi e delle norme applicabili in materia di responsabilità dello Stato per il fatto dei propri dipendenti. La stessa Corte di Cassazione, in passato, ha affermato che l’attività del dipendente costituisce fonte di responsabilità diretta per la P.A, quando sia volta a conseguire fini istituzionali e si svolga nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio al quale il dipendente è addetto. Pertanto deve escludersi che l’uso improprio di un’arma costituisca attività svolta nell’ambito del servizio affidato o per il raggiungimento di finalità istituzionali dell’Amministrazione. Se, infatti, il dipendente è lo strumento attraverso il quale l’Amministrazione si muove, quel dipendente deve agire secondo gli scopi che essa si propone; in mancanza di tale circostanza il comportamento di tale agente non può in alcun modo essere riferito alla P.A.. In altre parole giocare col collega non rientra affatto tra i compiti del carabiniere, né nel momento in cui agì, lo sfortunato militare rappresentava in alcun modo l’Arma cui apparteneva. In realtà, in quel momento era un privato che utilizzava la pistola d’ordinanza per fini estranei al suo ruolo. Se così è, secondo il Ministero della Difesa, si deve ritenere sicuramente reciso il nesso organico che consentirebbe di estendere la sua responsabilità civile allo Stato, e delle conseguenze del suo gesto deve rispondere soltanto lui. Detto questo, perché condannare l’amministrazione? Perché sostenere che l’Arma non avrebbe dimostrato di avere impartito adeguate disposizioni in materia di custodia ed uso delle armi e di necessità di scaricarle a fine servizio? Perché, soprattutto, rimarcare che “non era previsto nemmeno l’obbligo di deposito della pistola in armeria una volta terminati i turni di servizio”? E ancora, può il Giudice stabilire, sostituendosi all’Amministrazione, che l’Arma dei Carabinieri deve disporre che i suoi appartenenti depongano le armi al termine dell’orario di servizio e che non debbano, invece, tenerle con sé anche dopo. Si tratta di valutazioni e regolamenti che soltanto l’Amministrazione può fare, in ragione del suo incontestabile diritto di autodeterminarsi e darsi l’organizzazione che ritiene migliore. La Corte di merito sembrava voler attribuire la responsabilità alla P.A. a titolo di culpa in vigilando ex art. 2049 c.c; ma la P.A. risponde a titolo di responsabilità diretta per i comportamenti illeciti dei propri dipendenti ex art. 2043 c.c, essendovi identità e non diversità di soggetti, e pertanto, per definizione, deve ritenersi escluso ogni riferimento alla responsabilità indiretta ex art. 2049 e segg. c.c. Amministrazione e pubblico dipendente che agisce per suo conto sono un soggetto unico perché il secondo impersonifica il primo. L’assunto è molto pregevole, ma non ha convinto la Cassazione. Sul punto era già stata piuttosto chiara la Corte d’Appello che affermava “…Come correttamente sottolineato in prime cure, risulta pure provata la responsabilità del Ministero della Difesa, individuata nel fatto di “non aver vigilato sull’uso delle armi e sulla disciplina dei militi”: Nel caso in oggetto non solo l’Amministrazione non ha dimostrato di avere dato adeguate direttive ed istruzioni in ordine agli adempimenti riguardanti la custodia e l’uso delle armi alla fine del servizio, particolarmente in ordine alla necessità di scaricare l’arma, ma risulta anzi che non era previsto nemmeno l’obbligo di deposito della pistola in armeria una volta terminati i turni di servizio. È dunque palese che il Giudice di secondo grado ha affermato la responsabilità diretta della P.A. per il comportamento illecito dei superiori gerarchici del carabiniere consistito nel non aver dato le opportune direttive ed istruzioni vigilando poi sulla loro applicazione. Conseguentemente la responsabilità in questione è responsabilità diretta della P.A. per una condotta di detti dipendenti (superiori gerarchici del carabiniere) che indubbiamente rientrava in pieno nelle attribuzioni loro proprie, essendo essi certamente chiamati ad organizzare al meglio le attività dei militari subordinati nell’ambito dei fini istituzionali dell’Arma. È appena il caso di aggiungere che il rilievo secondo cui si trattava “…di valutazioni e regolamenti che soltanto l’Amministrazione può fare, in ragione del suo incontestabile diritto di autodeterminarsi e darsi l’organizzazione che ritiene migliore…” non solo non vale ad escludere la responsabilità in questione, ma afferma una situazione di discrezionalità della P.A. che costituisce invece proprio il fondamento della responsabilità medesima, per violazione delle regole di comune prudenza. Infatti (premesso in linea generale che i superiori gerarchici di soggetti che debbono usare armi nel normale esercizio del loro lavoro, violano le regole stesse se non emanano direttive volte a scongiurare incidenti o se tali direttive non sono adeguate) nella fattispecie, se detti superiori si fossero trovati vincolati da norme di legge sul punto e se avessero a queste obbedito non sarebbe stata configurabile una loro colpa. Invece proprio la circostanza che avevano tra l’altro il compito di disciplinare l’attività della truppa con le opportune direttive (anche in tema di cautela, e prevenzione di sinistri, nell’uso delle armi da fuoco), vigilando poi sulla loro applicazione, costituisce il fondamento essenziale della responsabilità in questione. Da tutto ciò si ricava un principio di diritto, molto importante per ogni ente che dota i propri dipendenti di strumenti offensivi: “nel caso che un dipendente della Pubblica Amministrazione abbia commesso un atto illecito e si accerti che ciò è avvenuto in quanto i superiori gerarchici del dipendente stesso hanno omesso di emanare le direttive opportune per prevenire la commissione, da parte dei lavoratori ad essi subordinati, di atti come quello predetto (vigilando poi sull’applicazione delle direttive medesime), vi è responsabilità diretta della P.A. per il comportamento omissivo di detti superiori, sussistendo sia la riferibilità di tale atto alla stessa P.A. (una volta assodato che nella fattispecie concreta la predetta emanazione rientrava tra i compiti di chi aveva funzioni dirigenziali nella struttura amministrativa in questione), sia l’esistenza di un rapporto di causalità tra il comportamento omissivo di detti superiori e l’evento dannoso (una volta assodato che nella fattispecie concreta senza l’omissione in questione non vi sarebbe stato l’atto illecito del dipendente subordinato direttamente produttivo del danno) in base al principio secondo cui causa causae est causa causati”.
Ugo Terracciano
Funzionario della Polizia di Stato e Docente di Politiche della Sicurezza Presso l’Università di Bologna


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