domenica 6 novembre 2011

I TRENT'ANNI DALLA SMILITARIZZAZIONE DELLA POLIZIA


POLIZIA LA FORZA DEL CAMBIAMENTO

Qualche giorno fa, un interessante convegno promosso dalla Università popolare di Roma, dalla Fondazione «Bruno Buozzi» e dalla Associazione «Emilio Alessandrini», ha celebrato i trenta anni dalla approvazione della legge 121/81 con la quale veniva profondamente riformata la polizia e il modo di organizzare la sicurezza. 
Ne parlo con Ennio Di Francesco, già ufficiale dei carabinieri e funzionario di Pubblica sicurezza, uno dei protagonisti di quella vicenda. 
Come si è arrivati alla legge 121/81? «La legge - dice Ennio - è stata la conclusione di un lungo percorso di lotte dure e sofferte iniziate a cavallo dei tremendi anni '60-'70, quando pochi "poliziotti carbonari" iniziarono a riunirsi in varie città d'Italia, spontaneamente e segretamente, per chiedere una polizia più professionale, inserita tra la gente, più moderna e democratica. Possono sembrare concetti scontati oggi, ma occorre andare con la mente e col cuore a quegli anni tremendi, scanditi da scontri di piazza, odio e violenza, attentati, uccisioni, stragi». 
Quali sono stati - domando - i contenuti più innovativi della legge? «Le principali conquiste - mi dice - sono state culturali: essere riusciti a cambiare l'idea, prevalente, di allora per cui i "tutori dell' ordine" erano dall'altra parte, separati dalla gente e utilizzati sovente come forza bruta per risolvere conflitti sociali che la politica non aveva voluto affrontare. E' stato un graduale, tenace percorso di coinvolgimento dell'opinione pubblica e della forze politiche, sociali e sindacali. Tra gli aspetti innovativi ci sono l'avere reso obbligatorio in tutte le Scuole di polizia l'insegnamento della Costituzione; l'avere affermato il carattere civile, e non militare, della Polizia di Stato; l'aver creato per la prima volta un ufficio di coordinamento di tutte le Forze di polizia (Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia carceraria, Forestale); la rappresentanza dei diritti dei poliziotti attraverso loro associazioni e sindacati; l'aver creato migliori condizioni di professione, vita e dignità; l'aver sancito la parità di ruolo e funzioni tra donne e uomini; l'aver migliorato la formazione e istituita la Scuola di perfezionamento comune tra dirigenti delle Forze di polizia; l'aver sviluppato le professionalità scientifiche». 
Come avete lavorato per ottenere questi cambiamenti? domando. «In ciascuno dei "poliziotti carbonari" - dice Di Francesco - si era accesa dentro, per esperienze o sentimenti personali, la scintilla (parafrasando Gaber) di partecipazione come libertà verso il bene pubblico. Eravamo pochi, ma determinati. Cominciammo a costituire una rete clandestina, a riunirci braccati quasi dai nostri colleghi dell'ufficio politico o dai carabinieri. Ci incontrammo di nascosto con i primi sindacalisti e politici più sensibili, con magistrati e giuristi. Andammo dove possibile nelle fabbriche e nelle scuole, spesso tra operai e studenti prevenuti, a parlare del nostro sogno. Avevamo costituito, forse senza rendercene pienamente conto, una magari piccolissima rete di "vigilanza democratica". Mi commuovo ancora oggi a pensare ai tanti "poliziotti carbonari" che in quegli anni vennero puniti, arrestati, cacciati via dall'Amministrazione». 
Quale era la speranza che vi muoveva? chiedo. «Quella di contribuire umilmente alla costruzione di un convivere sociale più sicuro, più partecipato e solidale, senza l'odio e gli orrori di quegli anni. Per le nuove generazioni». 
Quali sono stati gli ostacoli più gravi? «Gli inevitabili nemici di qualsiasi innovazione che, magari in buona fede, ci vedevano come "sovversivi" o comunisti. E, più spietatamente, con calcolo, coloro che con la riforma avrebbero perso non pochi poteri e privilegi». 
Dopo trent'anni come giudichi l'efficacia della legge? «Essa ha indubbiamente cambiato il nostro "sistema sicurezza." Ha fatto si che la nostra polizia avesse uno scatto in avanti, lungimirante per quei tempi, diventando una delle più preparate e professionali al mondo».


Agnese Moro - La Stampa

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